Proibizione della richiesta di interesse

L’aspetto di rottura tra il banking convenzionale e quello fondato sui principi islamici è rappresentato dal divieto coranico di richiedere e percepire un interesse come corrispettivo del prestito di capitali. Tale divieto – posto in maniera abbastanza esplicita nel Corano ed in particolare in II, 278-79 – è da interpretare in maniera categorica, indipendentemente dalla natura e dalla destinazione economica delle risorse in questione.

A molti potrebbe essere sconosciuto come, fino alla fine del Medioevo, anche il cristianesimo condannava l’usura in senso lato che veniva intesa come qualsiasi pagamento dovuto per un prestito di denaro. La famosa massima aristotelica “il denaro non può generare denaro” venne fatta propria dal Concilio di Lione II che, nel 1274, condannò espressamente la riscossione di interessi a fronte della concessione di un mutuo perché considerata come una vendita di denaro con pagamento differito, i cui interessi non erano giustificabili dalla variante del tempo visto che il tempo era considerato “bene comune”. La condanna non aveva quindi a che fare con l’entità del tasso di interesse richiesto: prestare denaro era considerato peccato, qualsiasi compenso fosse richiesto in cambio. La religione islamica ritiene non dignitoso l’arricchimento derivante dalla ricchezza già ottenuta, l’ottenimento di un guadagno può essere solo il risultato della profusione di un sforzo imprenditoriale o lavorativo. L’avere denaro da altro denaro è segno di mancanza di capacità economica e di sfruttamento del lavoro altrui.

Se questa è la base di partenza risulta chiaro come la materia dell’Islamic banking debba essere affrontata ricalibrando le tradizionali basi dell’intermediazione finanziaria. In questa visione un concetto come il valore finanziario del tempo, da pilastro indissolubile dell’attività bancaria diventa elemento di importanza piú che secondaria, da rapportare al massimo al tasso di inflazione.

La previsione di un corrispettivo che fronteggi la perdita derivante dall’inflazione sembra non contraria
alla Legge islamica, anche se su tale questione non c’è uniformità di interpretazione. Molto spesso, i contratti di compartecipazione agli utili incorporano, automaticamente, nel margine di profitto ottenuto anche una quota determinata dall’aumento dei prezzi nel corso della durata del contratto.

Il divieto di percepire interesse può essere visto come una ovvia conseguenza al ruolo che le comunità musulmane assegnano al denaro. Nella tradizione islamica le uniche funzioni della moneta4 sono quella di misuratore del valore e quella di mezzo di pagamento. Il denaro è propriamente utilizzato per esprimere in termini numerari quale è il valore di un bene o di un servizio, indicandone il prezzo. Allo stesso modo può essere utilizzato per acquistare direttamente, come contropartita del bene ricevuto.

Se da un lato queste funzioni sono riconosciute, non è riconosciuta la funzione che piú ha trovato sviluppo nell’economia moderna di stampo capitalistico: l’incorporazione del valore.

Il denaro non ha allora un valore intrinseco in se, possederlo non significa possedere ricchezza in modo diretto, ma solo in maniera indiretta come riflesso dei beni che con esso possono essere acquistati.

In un’impresa il denaro diventa ricchezza soltanto dopo essere stato investito al suo interno, e quindi contemporaneamente alla sua entrata nel circuito della produzione sottoforma di capitale. Per questa ragione non si puó pretendere nessun ritorno come semplice corrispettivo di un prestito: il denaro entra nell’impresa sottoforma di capitale produttivo e contribuisce al risultato economico complessivo, seguendone le sorti ed il rischio. Da tale impostazione consegue che il rendimento del prestito dipende dalla capacità dell’impresa di generare azioni profittevoli. Allora il capitale non potrà prevedere a priori un tasso di ritorno, in quanto il rischio di impresa si identifica per definizione nell’impossibilità di predire con certezza i risultati dell’attività posta in essere.

Condividere il rischio significa avere una remunerazione derivante da una compartecipazione agli utili, ma significa anche contemplare la possibilità di non avere nessun ritorno (in caso di assenza di utili) o addirittura una perdita in conto capitale (in caso di perdite economiche da parte dell’impresa).
Potrebbero sembrare incompatibili con il funzionamento delle banche, in realtà non lo sono a condizione che il funzionamento delle banche islamiche, in termini di procedure e di prodotti, sia ovviamente diverso da quello delle banche convenzionali. Ecco quindi che il rapporto banca-impresa non puó essere mai considerato come rapporto tra creditore e debitore. Qualora un’istituzione
bancaria islamica decida di finanziare un’azienda lo farà innanzitutto attraverso contratti di compartecipazione ai risultati economici, assumedosi una parte del rischio. Parallelamente, anche la raccolta del risparmio non potrà essere remunerata in base ad un prefissato tasso d’interesse, essendo il divieto di richiedere riba valido universalmente.